Terza riunione: Gesù voleva fondare la Chiesa?

Un racconto dev’essere credibile. Se poi pretende di rispecchiare una storia realmente accaduta, deve dare degli elementi che consentano di ritenerla fedele alla sostanza degli avvenimenti. Se vogliamo raccontare la Chiesa, dobbiamo fare i conti con questa esigenza. Il problema che subito si pone, da questo punto di vista, è se veramente il cristianesimo  – e, di conseguenza, la stessa Chiesa – siano stati fondati da Gesù, o se non siano stati piuttosto una costruzione successiva, a cui è stata attribuita questa origine per legittimarla.

Gli interrogativi più spesso avanzati sono due. Il primo riguarda proprio  Gesù. È plausibile, dato ciò che sappiamo di lui dai vangeli, che egli abbia avuto il proposito di dar vita a una nuova religione e a una comunità che la professasse? Il secondo riguarda la comunità cristiana delle origini. Quale fu la sua reale  identità? Possiamo considerarla l’inizio di ciò che noi oggi chiamiamo Chiesa? E’ in gioco, qui, la continuità cronologica e spirituale tra quest’ultima e la vicenda di Gesù, tra la sua fede e il messaggio del suo preteso fondatore. Il primo problema si riferisce alla possibilità che Gesù volesse fondare la Chiesa. Il secondo al fatto che questa, così come noi la conosciamo, abbia avuto effettivamente la sua origine storica dal rabbi di Nazareth.

In questo e nel prossimo incontro affrontiamo la prima questione. In quello  successivo ci occuperemo della seconda.

 

Gesù aveva l’intenzione di fondare una nuova religione?

In un libro-intervista che ha avuto un notevole successo editoriale,  Corrado Augias (un noto giornalista) e Remo Cacitti (un meno noto, ma stimato storico) hanno affermato che «Gesù non ha mai detto di voler fondare una religione, una Chiesa, che portassero il suo nome», di voler introdurre una fede «diversa dal giudaismo da lui professato»[1].

E, secondo loro, non l’ha detto perché non ne aveva l’intenzione, né poteva averla, essendo personalmente un convinto osservante di quella ebraica. Una quantità di autori, nell’ultima parte del Novecento, ha evidenziato che «il vero Gesù non è cristiano, ma ebreo» [2]. Secondo loro, egli non si riteneva che un rabbi, un maestro desideroso soltanto di prospettare in termini nuovi il patrimonio dottrinale della tradizione ebraica, senza aggiungervi nulla di sostanzialmente diverso. «Di certo il suo messaggio e le sue azioni furono fortemente caratterizzati dalla sua personalità (…). Ma non trascese mai i limiti del giudaismo» [3].

Gesù sarebbe stato un innovatore più per il “modo” di assumere e proporre la visione allora comunemente condivisa, che non per una reale discontinuità con essa. La sua, insomma, sarebbe stata una interpretazione della «posizione ebraica tradizionale», anche se  «vissuta in maniera personale e originale»[4].

A confermare questa lettura della figura di Gesù, che esclude ovviamente la sua volontà di fondare una religione e la Chiesa, viene spesso chiamata in causa la sua riluttanza a farsi considerare dai suoi discepoli come il Messia (in ebraico Mashiach,  in greco Christos, letteralmente, “Unto”), colui che avrebbe ricostituito il regno di Davide,  che gli ebrei attendevano. Solo per un equivoco, sorto in seguito e indipendentemente dalla volontà di Gesù, questo titolo regale sarebbe divenuto addirittura il suo nome proprio: “Cristo”.

«Personalmente» scrive Rudolf  Bultmann, «sono dell’av­viso che Gesù non si è ritenuto il messia»[5]. A motivare questa affermazione è il riserbo di Gesù in proposito. Più volte, soprattutto nel vangelo Marco (il più antico in nostro possesso), egli ingiunge ai suoi discepoli di non raccontare in giro i miracoli di cui sono testimoni e di non dire nulla che possa farlo considerare alla gente l’atteso re-Messia. Anche nel racconto dell’episodio di Cesarea di Filippo riferito da Matteo, subito dopo le parole di Pietro, che lo proclama tale, si legge: « Allora ordinò ai discepoli di non dire ad alcuno che egli era il Cristo» (Mt 16,20). Secondo i critici, questo «segreto messianico», attribuito a Gesù, sarebbe solo un modo per spiegare, a posteriori, il fatto che egli non si era di fatto mai attribuito quel titolo. Perché, appunto, convinto di essere soltanto un semplice rabbi.

 

 

Perché Gesù era restìo a dichiararsi Messia

A fronte di tutto ciò sta, tuttavia, il dato di fatto, segnalato da altri studiosi, come Joachim Gnilka, che «Gesù il messia o, meglio, Gesù il Cristo costituisce probabilmente la prima professione  della fede cristiana» [6]. Su questa stessa posizione troviamo un accreditato autore ebreo, Geza Vermès il quale, pur contestando la lettura che i cristiani hanno dato della figura di Gesù, riconosce che dagli Atti degli apostoli risulta chiaramente che «nei primi anni del cristianesimo, periodo al quale il libro si riferisce, Gesù era certamente identificato con il Messia», anzi «Gesù Messia era in fin dei conti il tema principale della predicazione primitiva»[7].

Ora, è difficile ipotizzare che si tratti di un titolo datogli dalla comunità solo dopo la sua passione, la sua morte e la sua (pretesa) resurrezione,  con una proiezione retrospettiva: «Che il titolo di messia sia stato applicato a Gesù soltanto dopo pasqua è un dato storicamente improbabile (…). Per interpretare una esistenza proiettata verso la croce e la resurrezione, il titolo di messia sarebbe stato del tutto inadeguato» [8]. Nella logica ebraica, infatti – come riconosce anche Vermès – , non c’era posto per «l’idea di un Messia umiliato» [9], ed è da scartare quindi l’ipotesi che essa sia il frutto di una successiva invenzione dei discepoli.

E il «segreto messianico»? Pur avanzando le sue personali riserve, Vermès prende atto che «la maggior parte degli studiosi del Nuovo Testamento, inclusi alcuni non cristiani – non è infatti una questione confessionale – sono dell’avviso che Gesù aveva sì una “coscienza messianica”, tuttavia preferì non sollevare la questione, convinto come era che la sua idea del “Cristo” non era quella professata dal popolo» [10].

Bisogna ricordare, infatti, che «la concezione giudaica [del Messia], pur non monolitica, racchiudeva in sé l’idea di liberazione politica dalla oppressione straniera»[11]. Peraltro, proprio «il periodo che va dal 63 a.C. al 66 d.C. è quello in cui più forti sono state nel giudaismo le attese messianiche di carattere politico-nazionale», rivolte «alla figura di un messia regale che sedesse un giorno nuovamente sul trono di Israele» [12].

Non per caso, prima e dopo l’attività pubblica di Gesù,  in Palestina emergono figure di condottieri improvvisati, in grado di raccogliere intorno a sé gruppi anche numerosi di seguaci entusiasti e di guidarli nella rivolta contro i Romani in nome di Jahvè: Giuda il Galileo, nel 6 d.C.; Teuda, all’inizio degli anni quaranta d.C.; l’Egiziano (un giudeo di origine egiziana), poco dopo.  In questa prospettiva si muoveva anche una delle sette religiose diffuse al tempo di Gesù, quella degli Zeloti, che caldeggiava una soluzione armata per la liberazione di Israele e l’instaurazione di un regno teocratico, e che non perdeva occasione per suscitare rivolte contro gli occupanti romani. E’ da questo clima che sarebbe scaturita la grande rivolta anti-romana del 66 d.C., culminata con la presa e la distruzione di Gerusalemme nel 70.

In questo contesto era inevitabile che anche il rabbi di Nazareth fosse visto come un possibile candidato al titolo di messia-re. Perfino tra i suoi più diretti discepoli, almeno all’inizio, l’equivoco dovette essere presente. Se ne trova ancora una traccia nel soprannome di uno dei dodici apostoli: «Simone, detto Zelota» (Lc 6,15).

Ancor più forte fu, probabilmente, il rischio di una confusione da parte delle folle, da cui Gesù dovette, a fatica, prendere le distanze. Dopo il racconto della moltiplicazione dei pani, il vangelo di Giovanni segnala: « Ma Gesù, sapendo che venivano a prenderlo per farlo re, si ritirò di nuovo sul monte, lui da solo» (Gv 6,15).

Acquista allora un preciso significato il fatto che  i vangeli sinottici pongano all’inizio della sua attività pubblica le tentazioni nel deserto, emblematiche di un’aspettativa a cui  Gesù oppone un netto  rifiuto. Riportiamo il racconto che ne fa Luca (cap. 4): « 3Allora il diavolo gli disse: “Se tu sei Figlio di Dio, di’ a questa pietra che diventi pane”. 4Gesù gli rispose: “Sta scritto: Non di solo pane vivrà l’uomo”.5Il diavolo lo condusse in alto, gli mostrò in un istante tutti i regni della terra 6e gli disse: “Ti darò tutto questo potere e la loro gloria, perché a me è stata data e io la do a chi voglio. 7Perciò, se ti prostrerai in adorazione dinanzi a me, tutto sarà tuo”. 8Gesù gli rispose: “Sta scritto: Il Signore, Dio tuo, adorerai: a lui solo renderai culto”. 9Lo condusse a Gerusalemme, lo pose sul punto più alto del tempio e gli disse: “Se tu sei Figlio di Dio, gèttati giù di qui; 10sta scritto infatti: Ai suoi angeli darà ordini a tuo riguardo affinché essi ti custodiscano;11e anche: Essi ti porteranno sulle loro mani perché il tuo piede non inciampi in una pietra». 12Gesù gli rispose: “È stato detto: Non metterai alla prova il Signore Dio tuo”».

Al di là del fondamento storico della narrazione, ciò che il  Gesù dei vangeli respinge è la riduzione della sua missione, essenzialmente spirituale, a un progetto politico-religioso capace di dare al popolo il benessere (il pane) e un dominio politico (i regni), confermando la sua investitura  con un  miracolo strepitoso (restare illeso dopo essersi lanciato nel vuoto).

E quando si cerca di trascinarlo ad assumere un ruolo politico-giuridico, egli è fermo nel rifiutarsi di assumerlo: «Uno della folla gli disse: “Maestro, di’ a mio fratello che divida con me l’eredità”. 14Ma egli rispose: “O uomo, chi mi ha costituito giudice o mediatore sopra di voi?”» (Lc 12,13-14). Il principio di fondo sembra essere una netta distinzione tra la sfera religiosa e quella politica: «Rendete dunque a Cesare quello che è di Cesare e a Dio quello che è di Dio» (Mt 22,21).

 

Il re crocifisso

Si capisce, allora, il riserbo di Gesù nei confronti dei tentativi di proclamarlo Messia. Ed è una conferma di questa ipotesi il fatto che egli stesso non abbi avuto esitazioni a rivendicare la propria regalità, quando, ormai abbandonato da tutti e ormai definitivamente  dissolto ogni equivoco politico-trionfalistico, deve farlo davanti ai giudici che lo condanneranno a morte. Leggiamo, nel vangelo di Marco (cap.14), la conclusione del processo davanti al tribunale ebraico: «61Di nuovo il sommo sacerdote lo interrogò dicendogli: “Sei tu il Cristo, il Figlio del Benedetto?”. 62Gesù rispose: “Io lo sono!”».

Con la stessa chiarezza, nell’ultimo vangelo, quello di Giovanni (cap.18), Gesù si pronunzia di fronte al tribunale romano: «33Pilato allora rientrò nel pretorio, fece chiamare Gesù e gli disse: “Sei tu il re dei Giudei?” (…).  36Rispose Gesù: “Il mio regno non è di questo mondo; se il mio regno fosse di questo mondo, i miei servitori avrebbero combattuto perché non fossi consegnato ai Giudei; ma il mio regno non è di quaggiù”. 37Allora Pilato gli disse: “Dunque tu sei re?”. Rispose Gesù: “Tu lo dici: io sono re”».

Siamo davanti a «un’affermazione esplicita della sua messianità»[13] , che però, significativamente, giunge solo dopo la precisazione sul carattere non politico-mondano di questa regalità.

A questo punto, non stupisce che tutti e quattro i vangeli, in modo più o meno esplicito, rappresentino la passione di Gesù come una tragica parodia, in cui però involontariamente si evidenzia l’effettiva regalità del Cristo. E’ già significativo che Pilato, in Marco 15, chiami sempre Gesù «re»: «9 “Volete che io rimetta in libertà per voi il re dei Giudei?” (…). 11Ma i capi dei sacerdoti incitarono la folla perché, piuttosto, egli rimettesse in libertà per loro Barabba. 12Pilato disse loro di nuovo: “Che cosa volete dunque che io faccia di quello che voi chiamate il re dei Giudei?”». Ancora più significativo è ciò che segue: «16Allora i soldati lo condussero dentro il cortile, cioè nel pretorio, e convocarono tutta la truppa. 17Lo vestirono di porpora, intrecciarono una corona di spine e gliela misero attorno al capo. 18Poi presero a salutarlo: “Salve, re dei Giudei!”».

Ne è una conferma la scena,  narrata in Giovanni 19, in cui «Pilato fece condurre fuori Gesù e sedette in tribunale, nel luogo chiamato Litòstroto, in ebraico Gabbatà. 14Era la Parasceve della Pasqua, verso mezzogiorno. Pilato disse ai Giudei: “Ecco il vostro re!”. 15Ma quelli gridarono: “Via! Via! Crocifiggilo!”. Disse loro Pilato: “Metterò in croce il vostro re?”. Risposero i capi dei sacerdoti: “Non abbiamo altro re che Cesare”. 16aAllora lo consegnò loro perché fosse crocifisso».

Si noti  che la traduzione ufficiale della  CEI dice che Pilato «sedette in tribunale»; uno specialista degli studi su Giovanni come De la Pottterie, però, ritiene più plausibile la traduzione «lo fece sedere»[14]. Il “doppio senso” della passione ha raggiunto il culmine della sua drammaticità e paradossalità: l’imputato siede sul seggio del giudice e i suoi accusatori, che credono di giudicarlo, ne sono in realtà giudicati. Ancora una volta, di quanto accade realmente si fa portavoce, senza rendersene  conto, lo stesso governatore romano, che continua a chiamare Gesù «re».

In questa stessa prospettiva tutti e quattro gli evangelisti segnalano che sulla croce Pilato fece mettere un’iscrizione con un esplicito riferimento a questa regalità. Giovanni, nello stesso cap.19, enfatizza anzi questo dato precisando che la frase «20era scritta in ebraico, in latino e in greco. 21I capi dei sacerdoti dei Giudei dissero allora a Pilato: “Non scrivere: ‘Il re dei Giudei’, ma: ‘Costui ha detto: Io sono il re dei Giudei’ ”». 22Rispose Pilato: “Quel che ho scritto, ho scritto”».

No, Gesù non si riteneva solo un rabbi. Per sostenerlo bisogna chiudere gli occhi su ciò che il concorde racconto dei vangeli dice, suffragato da quello degli Atti degli apostoli che parla della fede della comunità primitiva. E proprio la presa di distanza di Gesù dal titolo regale di Messia, di cui, con scrupolosa onestà, gli evangelisti ci informano, rende più credibile quanto essi dicono sulla sua certezza di essere re.

Resta da chiarire in che senso debba intendersi questa regalità. Perché solo così possiamo comprendere che cosa egli intenda quando afferma di essere il sovrano di un regno che  «non è di questo mondo».

Ritorniamo al testo di Giovanni 18, già in parte citato: «7Allora Pilato gli disse: “Dunque tu sei re?”. Rispose Gesù: “Tu lo dici: io sono re. Per questo io sono nato e per questo sono venuto nel mondo: per dare testimonianza alla verità. Chiunque è dalla verità, ascolta la mia voce”. 38Gli dice Pilato: “Che cos’è la verità?”».

La regalità di Gesù ha dunque la sua forza non nel potere, ma nella verità. Perché egli stesso, secondo l’evangelista, ne è la personificazione: «Io sono la via, la verità e la vita» (Gv 14,6), aveva detto poco prima ai suoi discepoli. Su questa linea dunque si dovrà intendere l’eventuale discepolato di una comunità che voglia ispirarsi a Gesù.

Ma come intendere, a sua volta, il concetto di “verità”? Non può essere un caso che lo stesso Giovanni, nel prologo del suo vangelo, abbia definito Gesù come il Logos che si fa carne. Il termine greco significa “Parola”, “Pensiero”, e probabilmente si collega al concetto di Sapienza che nell’Antico Testamento si dice «uscita  dalla bocca dell’Altissimo» (Sir  24,3) e ha presieduto alla creazione del mondo «come artefice» (Pro 8,22-31). Risulta, infatti, dal primo capitolo della Genesi che il mondo è nato dalla Parola: «E Dio disse… E Dio disse». La verità è dunque Cristo stesso in quanto, nella sua umanità, si rivela il disegno di Dio sulla creazione, il suo progetto, il senso che Egli ha conferito all’universo, agli uomini e alla storia nell’atto di evocarli dal nulla.

Il regno che Gesù è venuto a instaurare sulla terra è contrassegnato dunque non da rapporti di dominio, ma dalla manifestazione di quella profonda verità delle cose, delle situazioni, delle persone, che gli uomini spesso ignorano e stravolgono (significativo l’amaro interrogativo con cui Pilato commenta le parole del suo prigioniero), e che Gesù è venuto a restaurare, chiamando «chiunque è dalla verità» e perciò «ascolta la sua voce» a impegnarsi nella stessa impresa. Non siamo ancora in grado di affermare con certezza che Gesù abbia voluto costituire la Chiesa, ma sappiamo ora cosa si attende da coloro che vorranno partecipare alla sua missione regale.

 

La regalità dei cristiani

Non è un caso che il cristiano diventi tale col battesimo, che lo rende partecipe della regalità, della profezia e del sacerdozio di Cristo, conferendogli i cosiddetti tria munera, dove il latino munus sta a indicare un compito, ma anche un dono.

Qui ci soffermeremo sulla regalità[15]. È evidente, alla luce di quanto si è detto, che sarebbe fuorviante interpretare questa funzione battesimale in termini di potere. Il cristiano non è colui che opera,  a nome della Chiesa, la “conquista” o la “riconquista” della società.  La sua missione non può essere vista come una sistematica occupazione,  a livello individuale o di gruppo,  degli spazi pubblici,  sia pure con la pia intenzione di piantarvi la croce.

Ciò che gli è chiesto è di restituire alla loro verità le parole, i gesti, le relazioni umane, le istituzioni che in qualche modo dipendono da lui. Un solo esempio, appropriato alla condizione di studenti di molti di noi. C’è un modo, oggi diffusissimo, di frequentare l’Università che è la negazione della sua verità. Le Università non sono nate per gli esami, ma per favorire una ricerca condivisa. Vivere lo studio in vista dell’esame o, peggio ancora, del voto, significa falsare radicalmente  il significato autentico del proprio impegno. Oggi molti giovani sono immersi in questa falsificazione collettiva, che del resto spesso i docenti contribuiscono ad alimentare. Da qui uno studio che lascia poco spazio alla riflessione e agli interrogativi – per non “perdere tempo” – , condotto individualisticamente, senza momenti di reale confronto tra gli studenti e degli studenti con i professori, finalizzato al risultato utilitaristico del successo universitario piuttosto che alla possibile applicazione al futuro ambito professionale.

In questo caso, seguire Cristo significherebbe vivere l’università come comunità di vita intellettuale e il proprio studio come sincera ricerca, in vista di un servizio da rendere alla comunità civile grazie alle competenze acquisite. Promuovendo al tempo stesso ogni iniziativa atta a sensibilizzare gli altri, studenti e professori, a questa logica.

Ma la stessa riflessione si potrebbe fare per la politica, per le attività economiche, per le relazioni familiari… La regalità del cristiano implica uno sforzo concreto di trasformare la vita quotidiana, in qualsiasi campo. Si tratta di cogliere in ogni aspetto della vita il suo senso profondo, spesso sfigurato, e di sforzarsi di farlo emergere attraverso l’esercizio di “buone pratiche”. La verità non deve restare un’astrazione. «Aletheuontes », scrive Paolo in Ef 4,15, riferendosi al compito dei cristiani. Espressione intraducibile, in italiano, e che ha la sua base nel sostantivo greco aletheia, “verità”, ma reso nella forma verbale. Si tratta di “fare” la verità, non solo di conoscerla e di pensarla. «En agape», aggiunge l’apostolo: nell’amore.

Questo amore deve manifestarsi  innanzi tutto nello spirito delle beatitudini,  espressione della kenosis, della spogliazione  vissuta da Cristo sulla croce, in diretta contrapposizione alle logiche dell’affermazione sfrenata di sé, della sopraffazione e del dominio. Solo così il cristiano  riproduce e prolunga nella storia la missione  di Cristo.

Ciò non significa che il cristiano debba rinunciare alla lotta – proprio per la verità  deve affrontarla! – e cercare di mimetizzarsi.  Ma, nella sua battaglia quotidiana per l’avvento del Regno, utilizzerà preferibilmente quelli che Maritain chiamava «i mezzi poveri» – le idee, la forza della persuasione, la resistenza civile – , che anche al di fuori della prospettiva cristiana vengono privilegiati dai movimenti fautori della nonviolenza, e che non sono privi di efficacia, anzi, come l’esperienza storica dimostra,  possono a volte averne una maggiore che non quelli  “ricchi”.

Particolarmente problematico appare questo spirito di servizio in un ambiente come quello siciliano,  dove l’assenza di una tradizione pubblica finalizzata al perseguimento del ben comune ha consolidato,  nei secoli,  uno spirito di particolarismo feudale e di dominio personalizzato. È la logica –  condivisa e promossa da una popolazione che a larga maggioranza  si ritiene cattolica – di uno Stato «nel quale le leggi valgono contro i nemici e non sono osservate per gli amici, nel quale la pubblica amministrazione non è solo infeudata ai partiti ma è anche incapace di seguire regole uniformi e generali e fa valere il suo potere discrezionale in modo da porre i cittadini (quelli che possono farlo) nella condizione di dover cercare di stabilire un rapporto privilegiato con essa»[16].

Da qui «l’appropriazione o la distruzione indiscriminata di risorse naturali e di beni culturali, l’abusivismo edilizio, il contrabbando, il “furto” di beni e servizi pubblici, l’appropriazione e gestione privata della spesa pubblica, la microcriminalità diffusa e sostanzialmente depenalizzata», nonché «manifestazione più sottili, eleganti (…) quelle, ad esempio, che (…) si rivelano nella quotidianità di linguaggi feudali (il mio reparto, il  mio elettorato, la mia cattedra, il mio capitolo di bilancio, etc.»[17].

C’è bisogno di sottolineare che simili atteggiamenti  contraddicono alla radice lo stile evangelico della regalità e compromettono la credibilità del cristiano? In ogni caso, qualunque maschera possano assumere,  vanno denunziati con estrema fermezza.

 

La regalità dei laici

Tutto ciò si applica in modo particolare ai laici a cui, secondo il Concilio compete «cercare il regno di Dio trattando le cose temporali e ordinandole secondo Dio» (Lumen Gentium, n.31). Sul modello di Cristo,  quella che il laico è chiamato ad esercitare,  sia dentro che fuori la Chiesa,  è una vera regalità.  Va in questo senso la svolta del Concilio Vaticano II,  nei cui documenti viene delineata la fisionomia di un laicato finalmente adulto  che, nell’ambito delle sue competenze terrene, deve ormai considerarsi ed essere considerato responsabile delle proprie scelte. In questa sfera,  dice l’Apostolicam actuositatem con una bella espressione, «i laici sono ministri della sapienza cristiana» (AA n. 14).

Resta  la necessità  del confronto con i pastori della comunità,  che hanno pur sempre il compito di richiamare i grandi princìpi dell’impegno cristiano nel mondo e di sostenere spiritualmente i cristiani esposti alla prova delle circostanze.  Ma questo non deve mai far perdere di vista «la giusta autonomia della creatura» (Gaudium et Spes, n. 41) e dei problemi che la concernono, nei cui confronti la gerarchia non ha alcuna superiore conoscenza da far valere.

Su questo punto la Gaudium et spes contiene un passaggio che troppe volte,  anche ai nostri giorni,  viene dimenticato: «Dai sacerdoti i laici si aspettino luce e forza spirituale. Non pensino però  che i loro  pastori siano sempre  esperti a tal punto che ad  ogni  nuovo problema  che  sorge,  anche   a quelli gravi,  essi  possano avere pronta  una soluzione concreta  o che proprio  a questo  li  chiami la loro  missione: assumano  invece essi,  piuttosto,  la  propria  responsabilità,  alla  luce della sapienza cristiana e facendo attenzione rispettosa  alla dottrina del Magistero. Per lo più sarà la stessa visione cristiana  della realtà che li orienterà,  in certe circostanze, a una determinata soluzione. Tuttavia altri fedeli altrettanto sinceramente potranno esprimere un  giudizio  diverso sulla medesima  questione,  ciò che succede abbastanza spesso e legittimamente. Ché se le soluzioni proposte da  un  lato  o  dall’altro  (…)  vengono  facilmente  da molti collegate con il  messaggio evangelico,  in  tali  casi ricordino essi che a nessuno è lecito rivendicare esclusivamente  in favore della propria opinione  l’autorità della  Chiesa. Invece cerchino sempre  di  illuminarsi  vicendevolmente  attraverso  il  dialogo sincero, mantenendo sempre la mutua carità e avendo cura in primo luogo del bene comune»  (GS,  n. 43).

Il Concilio si riferisce qui innanzi tutto alla sfera delle scelte politiche e professionali,  di cui rivendica vigorosamente la distinzione rispetto a quella in cui la gerarchia ecclesiastica ha il compito di radunare e guidare i fedeli[18].  Tema di grande attualità,  in un momento in cui il venir meno della mediazione del partito unico cattolico rischia di coinvolgere troppo direttamente  l’istituzione ecclesiastica come tale nella contingenza delle vicende politiche,  rimettendo in auge la logica della supplenza.

È in gioco qui l’identità del laico cristiano,  e non solo nella società civile,  ma all’interno della Chiesa. Perché un laicato che fosse soltanto oggetto di convocazione e di direzione  dall’alto nelle questioni che immediatamente riguardano la sua laicità, si ritroverebbe  privo dello spessore culturale e del senso di responsabilità che lo devono caratterizzare,  e non avrebbe più alcun dono da portare nel concerto della vita comunitaria.  Da quanto abbiamo detto all’inizio dovrebbe esser chiaro che non si può indebolire l’incisività della presenza del laico nel mondo,  senza che ne risenta la sua funzione ecclesiale,  e viceversa. È dalla  sua capacità di corrispondere all’appello esigente del Signore nelle vicissitudini della storia che dipende la qualità della sua cooperazione  (cfr.  can. 129) all’interno di una comunità cristiana  che si confronta quotidianamente con questioni di ordine culturale,  politico,  economico,  sociale e che ha bisogno del suo apporto per interpretarle e affrontarle correttamente.

Non a caso il Concilio  afferma che i laici «secondo la scienza, competenza e prestigio di cui godono, hanno la facoltà, anzi talora anche il dovere, di far conoscere il loro parere su cose concernenti il bene della Chiesa» (LG n.37) ed esorta i pastori  affinché «riconoscano e promuovano la dignità e responsabilità dei laici nella Chiesa; si servano volentieri del loro prudente consiglio, con fiducia affidino loro degli uffici in servizio della Chiesa e lascino loro libertà e campo di agire, anzi li incoraggino perché intraprendano delle opere anche di propria iniziativa (…) In questo modo infatti è fortificato nei laici il senso della propria responsabilità, ne è favorito lo slancio e le loro forze più facilmente vengono associate all’opera dei Pastori» (LG n. 38).

Bisogna recuperare il senso sacro delle stesse attività profane e il valore ecclesiale – non ecclesiastico – della diaconìa laicale nella vita quotidiana. L’idea di una missione specificamente cristiana,  che si concretizza nelle funzioni di padre, di madre, di professionista, di operaio, di cittadino,  attraverso cui il Regno di Dio possa realizzarsi progressivamente nella storia degli uomini, sembra ancora estranea alla maggioranza dei credenti. Con la conseguenza che cristiani impegnati nella loro parrocchia come catechisti, ministri straordinari dell’eucaristia, lettori, accoliti, possono diventare, talora, sul posto di lavoro, mediocri funzionari, docenti senza entusiasmo o professionisti avidi di successo e di danaro;  in famiglia, genitori sbadati e nervosi; in politica, strenui difensori dei privilegi della propria classe sociale,  piuttosto che del bene comune.

Oppure – e non è meno grave – può accadere loro di operare nei diversi ambiti e nelle diverse  situazioni corrispondenti al loro stato di vita laicale con mentalità e stili di comportamento che nulla hanno a che vedere con la loro fede e che sono in aperta contraddizione con la loro partecipazione alla comunità cristiana[19].

Anche coloro – e per fortuna ce ne sono – che prendono coscienza delle implicazioni della loro fede nella vita di ogni giorno, possono stentare molto a  percepire la propria attività fuori delle mura del tempio come un servizio che riguarda la comunità cristiana e la sua vocazione missionaria. E non solo perché la comunità stessa sembra disinteressarsi, solitamente, di quanto i suoi membri fanno quando operano “fuori”; ma anche perché loro stessi non sono stati educati a vedere il loro impegno nel mondo come un’esperienza significativa a livello comunitario. Cosicché, alla fine, è ben raro che esso rifluisca sulla vita della parrocchia o dell’associazione o del movimento e diventi un fattore di arricchimento e di crescita spirituale per tutti.

Del resto, la comunità stessa è strutturata di solito in modo da privilegiare  quasi esclusivamente le attività relative al proprio mantenimento: catechismo, messe, amministrazione dei sacramenti. La proiezione all’esterno, sul territorio, non è né organicamente prevista né, di fatto, frequente. Analogamente, non si è disponibili ad accogliere gli stimoli, i messaggi, i problemi che provengono dall’ambiente circostante, per riflettere su di essi e trasformarli in opportunità di maturazione comunitaria.

In quanto la Chiesa ha le sue radici nella regalità di Cristo essa è chiamata a vivere diversamente la sua missione. E anche noi, come gruppo, siamo qui a riflettere su come essere fedeli a questa chiamata.

[1] C. Augias – R. Cacitti, Inchiesta sul cristianesimo. Come si costruisce una religione, Mondadori, Milano 2008, pp.3 e 152.

[2] A. Paul, in G. Vermès, Gesù l’ebreo, tr. it. V. Grossi e E. Peretto, pres. A. Paul, Borla, Roma 1983, p.2.

[3] J. Roloff, Gesù, tr. it. P. Massardi, Einaudi, Torino 2002, p.117.

[4] C. Augias – M. Pesce, Inchiesta su Gesù. Chi era l’uomo che ha cambiato il mondo, Mondadori, Milano 2006, pp.215 e 218.

[5] R. Bultmann, Gesù, tr. it. G. Barbaglio, intr. I. Mancini, Queriniana, Brescia 1972, p.104.

[6] J. Gnilka, Gesù di Nazareth. Annuncio e storia, ed. it. a cura di F. Tomasoni, Paideia, Brescia 1993, p.338.

[7] G. Vermès, Gesù l’ebreo, cit., p.176.

[8] G. Theissen – A. Merz, Il Gesù storico. Un manuale, tr. it. E. Gatti, Queriniana, Brescia 2007, p.656.

[9] G. Vermès, Gesù l’ebreo, cit., p.201.

[10] Ivi, p.179.

[11] Ivi, p.144.

[12] G. Jossa, Giudei o cristiani?, Paideia, Brescia 2004, p.25.

[13] Ivi p.83.

[14] I. De la Potterie, La passione di Gesù secondo il vangelo di Giovanni, tr. it. E. de Rosa, Edizioni Paoline, Cinisello Balsamo 1988, p.103.

[15] Il fondamento remoto di questa investitura si può trovare nel racconto della creazione: «E Dio disse: “Facciamo l’uomo a nostra immagine,  a nostra somiglianza,  e domini sui pesci del mare e sugli uccelli del cielo,  sul bestiame,  su tutte le bestie selvatiche e su tutti i rettili che strisciano sulla terra”» (Gn 1, 26).  Si noti che il senso del dominio,  che prevale in questa versione sacerdotale del racconto,  viene temperato da quello della custodia,  prevalente nella tradizione  jahvista,  di cui è espressione  il secondo capitolo della Genesi: «Il signore Dio prese l’uomo e lo pose nel giardino di Eden,  perché  lo coltivasse e lo custodisse» (Gn 215).

[16] N. Tranfaglia , La mafia come metodo nell’Italia contemporanea, Laterza, Bari 1991,  p. 23.

[17] E. Sgroi, Una tribù palermitana: la borghesia delle professioni e delle istituzioni, in AA.VV., Mafia, politica, affari. Rapporto 1992, Edizioni La Zisa, Palermo 1992,  p.211.

[18] «E’ di grande importanza, soprattutto in una società pluralistica, che si abbia una giusta visione dei rapporti tra la comunità politica e la Chiesa e che si faccia una chiara distinzione tra le azioni che i fedeli, individualmente o in gruppo, compiono in nome proprio, come cittadini, guidati dalla coscienza cristiana, e le azioni che essi compiono in nome della Chiesa in comunione con i loro pastori» (Gaudium et Spes,  n.76).

[19] «Due tentazioni alle quali non sempre essi [i laici] hanno saputo sottrarsi: la tentazione di riservare un interesse così forte ai servizi e ai compiti ecclesiali, da giungere spesso a un pratico disimpegno nelle loro specifiche responsabilità nel mondo professionale, sociale, economico, culturale e politico; e la tentazione di legittimare l’indebita separazione tra la fede e la vita, tra l’accoglienza del Vangelo e l’azione concreta nelle più diverse realtà temporali e terrene» (Giovanni Paolo II, Christifideles laici, n. 2).